Se si vuole ricominciare a pensare il Sud sono necessarie alcune operazioni preliminari. In primo luogo occorre smettere di vedere le sue patologie solo come la conseguenza di un difetto di modernità. Bisogna rovesciare l’ottica e iniziare a pensare che probabilmente nel Sud d’Italia la modernità non è estranea alle patologie di cui ancora oggi molti pensano che essa sia la cura. Per iniziare a pensare il Sud è in altri termini necessario prendere in considerazione anche l’ipotesi che normalmente si scarta a priori: la modernizzazione del Sud è una modernizzazione imperfetta o insufficiente o non è piuttosto l’unica modernizzazione possibile, la modernizzazione reale? Alcuni anni fa uscì un volumetto di Franco Cassano, intitolato Il pensiero meridiano, che suscitò un vivace dibattito.
La tesi di fondo che intendeva sostenere era che «occorre restituire al Sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato solo da altri». Tutto questo non vuol dire indulgere al localismo o al campanilismo: un pensiero del Sud, un Sud che pensa il Sud, vuol dire guadagnare il massimo di autonomia che consenta di pensare un’altra classe dirigente, un’altra grammatica della povertà e della ricchezza, progettare strategie innovative del proprio sviluppo, pensare la dignità di un’altra forma di vita. Mi venivano in mente pensieri di questo genere, che appartengono ormai ai termini in cui è stata dibattuta la questione meridionale, rispetto ad un nodo irrisolto e che è merito di Paolo Pagliaro aver riproposto di recente: il progetto della Regione Salento. Come un fiume carsico che scorre in profondità e, di tanto in tanto, fuoriesce dalle viscere della terra e feconda la terra che bagna e le bocche che disseta, così questo progetto non cessa di alternare periodi di massima attenzione, a partire da quel lontano 17 dicembre 1946 quando sembrò che la calorosa perorazione fattane da Giuseppe Codacci-Pisanelli avesse incontrato il favore dell’Assemblea costituente, a più lunghe stagioni in cui ha dominato la congiura del silenzio.
Ha ragione Pagliaro: «La “salentinità” è un sentimento, una condizione psicologica, un privilegiato rapporto d’amore nei confronti del Salento da parte di chi, in questo territorio, riconosce la propria “piccola grande patria”». Un grande storico francese, Fernand Braudel, ha scritto che il Mediterraneo non è mai stato una semplice fenditura della crosta terrestre che si allunga da Gibilterra all’Istmo di Suez e al Mar Rosso. Come il Mediterraneo, anche il Salento non è mai stato semplicemente un’espressione geografica. L’immagine del Salento ci restituisce una foto ancora macchiata dal ritardo industriale, dalla latitanza dei servizi pubblici, dall’inquinamento del malaffare. Questa immagine non è nuova. È, però, solo una parte della realtà, quella più comunemente rappresentata negli ultimi centocinquant’anni dall’Unità d’Italia.
È comunque un’immagine che inchioda ogni meravigliosa e possibile utopia per il Salento. Un’immagine che stride violentemente con quello che noi conosciamo di un Salento dalle bellezze naturali e paesaggistiche inestimabili, ricco di arte, di storia, di talenti e di grandi uomini. Senza mettersi ad almanaccare di lontane e favolose origini, il Grande Salento è in ogni caso l’attuale denominazione della Magna Grecia, della terra di Pitagora e di Archita da Taranto, del normanno Tancredi d’Altavilla e del Chiostro degli Olivetani in Lecce, di Raimondello Orsini del Balzo e di Maria d’Enghien, della Guglia di Soleto e della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, del rito bizantino e dei grandi copisti di antichi codici greci, del barocco e di Santa Croce a Lecce, di grandi protagonisti del Risorgimento come Sigismondo Castromediano, di insigni giuristi, da Giuseppe Grassi a Michele de Pietro fino al compianto Vittorio Aymone, di raffinati ed ispirati poeti del calibro di Girolamo Comi, di Vittorio Bodini e Vittorio Pagano. E fin qua siamo alla mappa della nostra identità culturale. Ma anche i bambini sanno che i confini regionali della Puglia identificano quella che con un’evidente forzatura comprende tre etnie diverse (i Messapi, i Dauni e i Peucezi) che probabilmente non hanno mai raggiunto un amalgama convincente. Di questa diversità delle popolazioni raccolte sotto un’unica circoscrizione amministrativa rimangono tracce evidenti nella vecchia, ma non vecchissima denominazione, per cui, fino a non molto tempo fa, si usava il nome di Puglie (come recita tuttora il sottotitolo della “Gazzetta del Mezzogiorno”, cioè il “Corriere delle Puglie”, o, com’è ancora scritto sulla facciata del Palazzo di Giustizia di Trani, dove campeggia la dizione “Corte d’Appello delle Puglie”).
Ma le ragioni che militano a favore della ripresa del tentativo, che ci si augura diventi un fatto di popolo, di istituire la Regione Salento, non sono nominalistiche o attinenti ad un retroterra archeologico e di acribia filologica. Perché delle due l’una: o Pagliaro nel suo articolo si è inventato o ha gonfiato le cifre che fornisce, o la questione è incredibilmente seria. Questi sono i dati: dei fondi messi a disposizione della Regione Puglia per il quinquennio 2007-2013, ben il 70% complessivo è stato investito nella provincia di Bari, mentre solo il 30% nelle restanti province. Nel settore dei trasporti, dell’1,4 miliardi di € disponibili, ben 900 milioni sono stati impegnati per la sola città di Bari, con una spesa pro-capite per i cittadini baresi di 1,45 € e di soli 14 centesimi per gli abitanti del resto del territorio regionale. Nell’ambito delle manifestazioni culturali, il 60 % dei finanziamenti regionali è stato destinato alle provincia di Bari, riservando per il resto delle province solo il 40 %.
E il cahier de doléances potrebbe continuare per gli altri capitoli del bilancio regionale. Sic stantibus rebus, sarebbe pretestuoso, demagogico e scorretto accusare chi fa questi calcoli di interesse personale o, comunque, di un approccio riduttivo o economicistico alle questione. Se ci teniamo al decollo civile, culturale ed economico del nostro territorio, occorre prevedere una cornice giuridico-istituzionale e amministrativa che incoraggi e sostenga le iniziative volte a favorire una strategia di sviluppo per il Salento. È incontrovertibile che questo sostegno finora non ci sia stato ed ecco perché occorre cambiare e affrontare alla radice il problema.
01/07/2010
di Paolo Pellegrino
Docente di Estetica e di Etica della comunicazione dell’Università del Salento.