La Regione e le ragioni del Salento

L’editoriale del direttore pubblicato sul giornale oggi, 15 agosto, in edicola.
di Claudio SCAMARDELLA

Come un fiume carsico, sta riemergendo in queste settimane una vecchia e mai sopita spinta all’autonomia del Salento, anche sotto la forma dell’istituzione di una Regione separata dalla “baricentrica” Puglia.
A rilanciare la proposta, qualche mese fa, è stato Paolo Pagliaro sulle colonne di Quotidiano, con un intervento che ha avuto il merito di suscitare non poche reazioni, molte di segno opposto, e la riapertura di un vivace confronto sull’identità salentina e sui suoi confini.

L’idea è fascinosa e suggestiva, non c’è dubbio, anche perché può affondare le radici in un’autentica specificità territoriale, che non si esaurisce nella sola espressione geografica, e può contare soprattutto sull’emozionalità di quel comune sentire – storico, culturale, paesaggistico e, perfino, linguistico – che va sotto il nome di “salentinità”. Insomma, c’è un popolo, c’è un territorio, c’è una forte identità comunitaria: potenziali elementi costitutivi di una realtà istituzionale autonoma. Non a caso, i sostenitori della proposta ricordano spesso che già durante i lavori dell’Assemblea costituente, Giuseppe Codacci Pisanelli cercò in tutti i modi di convincere l’assise circa la necessità e la giustezza di istituire la Regione Salento, ma la sua battaglia fu vanificata dall’avversione dell’allora emergente Aldo Moro.

Di autonomia salentina si riprese a parlare negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore delle Regioni, nel 1970, e ai bilanci deludenti delle prime legislature regionali. Un’altra fiammata a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica.
È così ovvio che appare quasi superfluo doverlo sottolineare: la voglia di separarsi, la spinta all’autonomia, la tendenza a rinchiudersi nei propri confini sale forte, ovunque, nelle fasi di tumultuosa trasformazione o di profonda crisi. Crisi della rappresentanza e crisi istituzionali, innanzitutto. Ma anche crisi di idee, crisi di progetto e di prospettiva. In una sola parola, crisi di fiducia nel futuro.

È sicuramente, questo, il momento che l’Italia intera sta vivendo, con accenti ancora più vistosi nel Mezzogiorno, dove al fallimento delle politiche centralistiche e dirigistiche fino agli inizi degli anni ’90 si è aggiunto, negli ultimi due decenni, il disastroso bilancio del regionalismo e della cosiddetta programmazione negoziata sul territorio. Lo storico deficit di governo delle classi dirigenti meridionali ne è risultato accentuato e, da alcuni anni, il Sud è come se vivesse sospeso nel limbo: senza voce, senza speranza, senza una rappresentanza credibile agli occhi dell’intero Paese, senza un’idea e senza una prospettiva, rassegnato al peggio o nell’attesa messianica di qualcosa o qualcuno che un giorno arriverà a rimettere le cose a posto e a salvarlo.

È proprio nell’assenza di un progetto unificante, interpretato da soggetti (partiti, movimenti o leadership autorevoli) in grado di mediare le grandi fratture sociali e culturali politicamente rilevanti su base nazionale o territoriale, che trova linfa vitale la spinta alla separazione, ai particolarismi, ai localismi e ai campanilismi esasperati. È la mancanza di una bussola e di una rotta in grado di affrontare la navigazione in mare aperto a spingere verso la scelta del porto apparentemente sicuro, chiuso, senza rischi e senza paure. Ed è soprattutto per l’assenza di un orizzonte progettuale nel governo delle istituzioni che la legittima delusione di una comunità, rispetto a una gestione amministrativa ritenuta punitiva, rischia di sfociare nella voglia di separazione.

Ecco, la richiesta di staccarsi dalla Puglia parte innanzitutto dalla delusione e dalla rabbia per il “dilagante baricentrismo” in una regione che, a differenza di quasi tutte le altre, appare più complessa da governare perché “regione troppo lunga”, come dicevano dell’Italia i conquistatori arabi. Delusione e rabbia in gran parte legittima perché, come ricordano i sostenitori della Regione Salento, l’ingiusta ripartizione dei fondi regionali per il quinquennio 2007-2013 è sotto gli occhi di tutti: il 70% investito nella provincia di Bari, mentre solo il 30% nelle restanti cinque province. Difficile, poi, non riconoscere il profondo divario che emerge nel settore dei trasporti e della mobilità: in tutti i progetti di rinnovamento e ammodernamento delle reti e dei collegamenti ferroviari, la Puglia di fatto si ferma a Bari. E su sanità, università, infrastrutture il saldo risulta anche peggiore. Dunque, si possono trovare mille buoni motivi per rivendicare le ragioni di un territorio che si considera ingiustamente penalizzato dal “baricentrismo” e che, sulla base di una forte identità culturale e storica, ambisce a un più spinto autogoverno. Va perciò dato atto a chi ha rilanciato la proposta della Regione Salento di aver posto un problema serio e oggettivo: il riequilibrio nel governo regionale nelle politiche verso l’intero territorio pugliese e una maggiore attenzione verso le terre più lontane da Bari.

Ma davvero la separazione è la soluzione del problema? O non è, invece, il tentativo, magari apprezzabile ma vano, di veder mutata la propria immagine e la propria condizione con il solo cambio dello specchio in cui esse oggi si riflettono? In altre parole, senza una riforma complessiva della politica, senza ritrovare una bussola e una rotta, l’eventuale Regione Salento non riproporrebbe gli stessi vizi, le stesse criticità e le stesse cattive abitudini della Regione Puglia o della Regione Campania? E la prima grande lacerazione della Regione Salento non sarebbe, forse, la scelta del capoluogo regionale? Lecce? Brindisi? E perché non la più popolosa Taranto? Dove si è arenata, del resto, la giusta idea del Grande Salento se non nella riesplosione dei localismi e dei campanilismi tra le tre città?

Non è, dunque, solo un problema di aumento di costi della politica che l’istituzione di una nuova Regione produrrebbe. La storia ci ha insegnato che l’innalzamento dei muri porta ad altri muri, a cascata, fino all’esasperazione dei più egoistici particolarismi. Laddove le barriere si abbattono, gli orizzonti si allargano e le prospettive si presentano meno anguste. Laddove, invece, si erigono i muri, si avverte la pesantezza del clima e, soprattutto, la riaffermazione del principio amico interno-nemico esterno che non è mai stato autentico propulsore di sviluppo. Il Salento è Magna Grecia, il Salento è terra di due mari, il Salento è terra di frontiera e ponte tra civiltà e tra culture diverse. Il Salento è Europa. Restringerlo dentro i suoi confini sarebbe uno spreco. Per chi ci vive dentro e per chi ne resta fuori.

Nuovo Quotidiano di Puglia 15/08/2010
di Claudio SCAMARDELLA

 

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