“Poso sul tavolo gli occhiali: oggi mi farebbero vedere ombre e nebbie. Devo farlo, se voglio provare a immaginare il futuro delle istituzioni nella nostra terra salentina fra ben sette lustri. Eppure sono i giorni del solstizio d’estate del 2014. I più luminosi e lunghi. Ma come definire questo fastidio? Un acufene concettuale? È una sensazione difficile da spiegare”. Così il professore e avvocato Pierluigi Portaluri.
“Provo con un esempio. Un turista – ce ne sono moltissimi, adesso – mi chiede spiegazioni su una strada, un monumento di Lecce. Parla un’altra lingua. Provo a rispondergli in inglese. Lui capisce, annuisce e se ne va ringraziandomi anche con un sorriso -continua- Sono felice. Mi sento – per un attimo – cittadino del mondo. Ma sopratutto, sento di vivere in una terra non ai margini. Attraversata, invece. La vita non è altrove, mi dico. Ma poi l’incanto – l’afterglow, lo chiamano i poeti – svanisce. La realtà è un’altra. Siamo addirittura «comunità minori», almeno stando a una legge – voluta da un giovane fiorentino e da una donzella con occhi dal sottile taglio giottesco – che ha distinto l’Italia in territori di prima qualità (dove splenderanno i presunti Eldorado delle Città metropolitane: Bari, per esempio; ma anche Reggio Calabria…) e di seconda scelta (tutti gli altri; anche noi salentini).
Siamo così «minori», in questo 2014, da non meritarci a Lecce, Brindisi o Taranto una Prefettura cui rivolgerci se un Comune – abbandonato a sé stesso anche perché le Province quasi non ci son più – soggiace a sodalizi malavitosi. O se un’impresa è in crisi e c’è bisogno di un tavolo dove sedersi per salvare il salvabile.
Anche il TAR è troppo, per una piccola e angusta realtà come la nostra. Lusso smodato. Si vada tutti a Bari. Appena duecento chilometri da fare di corsa per chiedere a un giudice di decidere ad horas. Ma se la strada è bloccata o il treno ritarda, pazienza. La Giustizia può attendere, nelle comunità minori.
Giacché rispondo, sul punto, a un mio intelligente amico, espressione degli «innovazionisti»: di coloro secondo cui anche la peggior riforma è comunque migliore della stasi. Non intendo negare la necessità di un ulteriore miglioramento delle performance – già molto buone – dei TAR (e del nostro in particolare). Qui si tratta, invece, di domandarsi oggettivamente – al netto cioè degli interessi della «corporazione» forense (cui io stesso appartengo) – se la soppressione della sezione staccata salentina sguarnirà nei prossimi lustri il territorio di un presidio di legalità o se sarà invece irrilevante. Non mi pare si possano avere troppe esitazioni nel senso della difesa, almeno in questo caso, dello status quo. Basta con le lamentele, però: siamo o no il Grande Salento? Qui non si tratta di immaginare come sarà il nostro parco istituzionale fra sette lustri. No. Si tratta di capire come costruire quel risultato, che per ora è soltanto una bella etichetta, una vaga eufonia.
È sufficiente per svegliarci dal torpore ciò che sta accadendo davanti ai nostri occhi? La devastazione che si sta perpetrando ai danni dei nostri presidi amministrativi e giurisdizionali non dovrebbe suscitare nella popolazione salentina l’impeto a una mobilitazione, a una chiamata alle armi civilissime della protesta, della proposta e dell’attivazione di ogni legittimo canale di giusta pressione sullo sconsiderato centro decisionale romano?
Penso sia venuto il momento di abbandonare tatticismi e doppiogiochismi da imbarazzo di posizione, come m’è parso di scorgere in taluni rappresentanti politici locali.
Il quadro che si delinea mi pare molto semplice, nella sua ruvida dinamica. La battaglia – una volta vessillo degli orientamenti più decisionisti – contro i corpi intermedi, è stata sposata ed anzi elevata d’intensità dall’attuale maggioranza di governo. Che ora punta a conseguire un diradamento del parco istituzionale senza mostrare alcuna preoccupazione per le ricadute negative sul tessuto sociale. Poiché queste manovre hanno tempi lunghi di risposta, ne vedremo gli effetti perversi solo nel medio periodo, sospinti da un’inerzialità che sarà poi difficile correggere e invertire.
Un’osservazione credo sia a questo punto necessaria. La «scala» territoriale che la maggioranza di governo sembra considerare appropriata per gestire in modo efficiente la cosa pubblica è quella che coincide con le Regioni. Con due precisazioni però. Non c’è nessuna intenzione di modificarne le attuali dimensioni. E si ritiene che sia il capoluogo regionale il punto dove concentrare tutte le funzioni amministrative. Insomma, la visione politica oggi al potere ritiene che l’optimal size sia sempre e comunque quello regionale. Grave errore, a mio avviso. Anzitutto, le Regioni non sono tutte eguali. Alcune sono amministrate in modo forse decente. Altre si sono rivelate vere e proprie macchine di sprechi di danaro pubblico.
Tutte, poi, ci hanno consegnato un dato incontrovertibile: l’esperienza delle Regioni intese come enti di legislazione e programmazione è fallita.
Come rimediare? Voglio qui richiamare lo studio della Società geografica italiana che, dopo un’attenta ricognizione delle linee andamentali dei processi sociali ed economici italiani, ha proposto di riorganizzare il nostro mosaico territoriale, vista la prossima soppressione delle Province, in 36 Regioni più piccole delle attuali.
È proprio quello – io credo – di cui ha bisogno il nostro Salento. Sparite le tre Province, immagino per il nostro futuro un ente territoriale di prossimità media – o di area vasta se si preferisce – che le unifichi. Il nome, l’etichetta, conta poco. Ma nella sostanza, dev’essere una figura rappresentativa che unisca tre caratteristiche positive: sia in grado di garantire un’interlocuzione forte e autorevole con il potere centrale; non sia troppo distante dalle esigenze della popolazione che deve amministrare; né, all’opposto, le sia troppo vicina, poiché ciò potrebbe causare deprecabili fenomeni di capture, cioè di supremazia più o meno lecita degli interessi privati forti sull’interesse della collettività.
Ciò che io vedo nel futuro è la nascita, quindi, di un ente di programmazione e spesa meno condizionato dagli inevitabili conflitti di interessi pubblici che a mio avviso caratterizzano l’azione della Regione Puglia, alle prese con un territorio troppo disomogeneo per geo-sociomorfologia: fra i tanti esempi di quel che dico, penso alle evidenti sperequazioni esistenti nell’infrastrutturazione nei settori nevralgici dei trasporti su gomma, ferro e aerei; e in quello della portualità commerciale e diportistica. Non dimentichiamoci della vocazione turistica del Salento e della cronica nostra penuria di approdi attrezzati, che fanno delle nostre coste meri punti di transito per le località greche e croate.
Il vero e proprio governo di prossimità spetterà, ancora, ai Comuni. Ma disegnati in modi abbastanza diversi da quelli attuali. E con funzioni che dovrebbero positivamente risentire – e molto – di un aumentato livello della sensibilità collettiva per nuovi beni pubblici.
Andiamo con ordine. I Comuni del Grande Salento in gran parte non sfuggono oggi all’asfittica connotazione dimensionale che li condanna a essere Comuni cc.dd. polvere: troppo piccoli per poter essere davvero efficienti e quindi per riuscire ad assicurare servizi accettabili alla popolazione. Tante monadi, vicine e isolate fra loro. Qui la soluzione è a portata di mano. Sono le varie forme associative comunali, indispensabili per raggiungere la massa critica minima che consente l’erogazione ai cittadini di prestazioni di buon livello nei settori dei servizi sociali, della gestione del territorio, dello sport e così via.
Dovrebbero poi, dicevo, cambiare le funzioni disimpegnate dai Comuni salentini, calibrate meglio sulle caratteristiche del complesso territorio-popolazione, innescando una circolarità virtuosa. Qui il discorso predittivo si fa più articolato, e quindi mi ci soffermo un po’. Non voglio abbandonarmi al luogo comune – molto trendy – delle smart cities, concetto ancora troppo confuso. Ma la progressiva digitalizzazione dei Comuni credo che sarà sempre più marcata. È qui che vedo il rapporto virtuoso – interattivo, oggi si dice – tra cittadini e municipalità.
Azzardo solo un paio di scenari, allora, scelti fra i temi che prediligo.
L’ambiente, anzitutto. Bene comune per eccellenza. Ma composto di molti «nuovi» beni pubblici. Il silenzio, eccone uno fra i tanti. Che non è solo – a Lecce – la questione movida. Penso invece, in generale, alla circolazione stradale. Alla manomissione, per esempio, degli impianti di scarico delle auto e delle moto (che pure amo sin troppo). L’Harley Davidson – celeberrima per i suoi fragorosi bicilindrici – annuncia una moto ibrida, molto più sobria in fatto di decibel. Noi potremmo cablare i Comuni regolando – e dunque giuridicizzando – le soglie massime di inquinamento acustico di ogni veicolo (magari differenziandole nelle varie zone municipali), allo scopo di rilevarne e sanzionarne on line il superamento. In breve tempo, il bene pubblico «silenzio» sarebbe talmente goduto – vorrei dire «gustato» dai cittadini – da renderne socialmente impensabile la lesione.
Il paesaggio, ancora. Ricordate il Sindaco visionario di Stromboli in Caro Diario? Quello che insegue Moretti sognando di vestire la sua isola con musiche perenni di Morricone e luci da set di Storaro? È troppo, lo so. Ma non lo è, però, potenziare i mezzi di tutela giuridica per scongiurare trasformazioni del nostro Salento che lo imbruttiscano più di quanto non sia stato fatto in questi ultimi decenni di edilizia mediamente scadente dal punto di vista estetico. Il discorso non vale solo per le aree vincolate: uno dei punti che condivido del recente Piano paesaggistico regionale è quello di aver considerato degno di attenzione tutto il territorio pugliese, incluse le aree degradate. Regolazioni oggi marginali e poco diffuse, come i piani del colore e della luce, assumeranno importanza sempre più decisiva: se ben fatti, genereranno ricadute positive sul comune buon gusto, cui la popolazione dovrebbe spontaneamente conformarsi rendendo progressivamente inutile l’imposizione di norme vincolanti.
E chissà che, un giorno, non sparisca anche la cattiva retorica. Quella del Salento ostentato -conclude- Puro marchio da vendere. Terra che dichiariamo di amare, ma di cui svelliamo i muretti e lordiamo le spiagge. Terra che – dove non arriva il diritto – si china lieve nel cuore”.
26/06/2014
di Prof. e Avv. Pierluigi Portaluri
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